Danilo Eccher, Carla Accardi2018-01-31T10:50:21+00:00
Carla Accardi
di Danilo Eccher

in Carla Accardi, catalogo della mostra (a cura di), Roma, MACRO Museo d’Arte Contemporanea Roma, 19 settembre 2004 – 9 gennaio 2005
Mondadori Electa, Milano, 2004, pp.20-35

Ovunque si volga lo sguardo o si scorrano le pagine della complessa grammatica pittorica di Carla Accardi, non si può non imbattersi nell’imponente presenza del segno. Un protagonismo profondamente consapevole, lucido, puntigliosamente deciso a ribadire la forza di una voce chiara e sicura. È il frutto di un’urgenza storica che percepiva la necessità di un nuovo linguaggio che, pur mantenendo un forte ancoraggio alla tradizione pittorica, accettasse l’avventura dei nuovi codici espressivi che si stavano affermando. Vi era la necessità di sperimentare nuovi alfabeti segnici, nuovi modelli compositivi, nuove libertà espressive, nuove opportunità tecniche.

In questo contesto, l’analisi del segno, inteso come elemento primario, cellula staminale di un’origine pittorica ancora indefinita, è il frutto di un processo pauperistico di spoliazione che riduce l’intera narrazione artistica agli elementi costitutivi, ai dati primigeni. Allora lo stesso colore si annulla nella semplice riproposizione del contrasto fra luce, come somma epifanica di comunione coloristica, e buio, come impossibilità percettiva di ogni accensione cromatica. Il bianco e il nero, l’avvio di ogni percezione, la purezza formale di un’energia incontaminata.

È in questo orizzonte di rarefatta sospensione che il segno definisce il proprio volto che non può essere descrittivo ma, anch’esso, sofisticatamente puro, mentale, dunque astratto.

L’origine del segno di Carla Accardi risiede quindi in un complesso terreno di coltura che non rinuncia all’irruenza istintiva ma che, soprattutto, ricerca una formulazione logica di un nuovo linguaggio dove si possono raccogliere le fantasie del mondo. Quasi asettico, distaccato, freddo e inospitale, il luogo originale del segno si illumina e si anima gradualmente lungo le tracce di un sussurrato racconto che sembra scombinare un ordine dato e generare un’insubordinazione inattesa. Il monacale ascetismo segnico, in cui si poteva solo intuire la vivace gioia narrativa nelle sorprendenti volute e nelle improvvise contorsioni del tratto, si dissolve e svapora nel vortice irriverente di un soffio fantastico che agita e scombina lo spazio scenico. Il segno sussulta, sbanda, s’innervosisce, libera linee che rincorrono nuove armonie, nuovi ordini, nuovi profili narrativi. Tutto è improvvisamente animato da una strana e ipnotica energia che esprime una tensione quasi sciamanica, spirituale, profonda, intimamente istintiva. Vi è nel segno di Carla Accardi una sorta di bizzarro naturalismo che nulla ha a che vedere con l’aspetto mimetico e descrittivo, bensì un naturalismo animistico, magico, che approda a una calligrafia esoterica, eppure, straordinariamente familiare.

Probabilmente è questa instabile oscillazione fra il rigore matematico di una grammatica fortemente analitica e l’attrazione inconfessabile per una fantasia ossessivamente insubordinata, che suscita una concentrazione maniacale e, nel contempo, un fremito emotivo dal quale nessuno sguardo può essere immune. Un segno bifronte, ora immerso nell’indagine sulle sottili variazioni di un linguaggio astratto che affonda il proprio codice espressivo nelle esperienze delle avanguardie storiche, ora rivolto alla delicata sorpresa di un incanto evocativo che allude alla verità della poesia.

È in questo pendolo, nell’attrazione contrapposta di questi poli, che s’inserisce l’urgente bisogno di luminosità, l’insinuante desiderio di colore. Dapprima timido e controllato, quasi sottovoce e in punta di piedi, s’insinua nelle ombre dei segni, poi, sempre più vivo e squillante, si espande nello spazio contaminando l’intera composizione. Nelle opere di Carla Accardi, il colore ha assunto un ruolo sempre più protagonista, sapendo modulare con sofisticata precisione la propria voce, ora sfiorando le accensioni dei gialli e dei rossi, ora immergendosi nelle turbolenze dei verdi o dei blu. Lo stesso segno, in un primo tempo quasi spettatore di un lontano mutare climatico, si è poi rassicurato lasciandosi avvolgere da un misterioso calore cromatico. Anche in questo caso, il colore non si accosta al solo piacere di un’emozione poetica, non cede al solo fascino incantevole dell’abbandono, il colore è comunque chiamato nella colta grammatica dei primari e dei complementari. Nessuna pedante puntigliosità analitica, eppure un costante suggerimento, un discreto controllo, una consapevole volontà di ricerca che non rinuncia ad alcun linguaggio. Ecco allora che la dimensione cromatica assume un nuovo ruolo, una nuova prospettiva, il colore consente di spostare l’attenzione sulla funzione della luce.

L’effetto luminoso non è solo l’approdo di un percorso cromatico svolto nell’ambito delle ricerca e della poesia, è anche l’avvio di un articolato itinerario nei territori dello spazio e del movimento. Come per i segni di Balla o gli equilibrismi di Calder, il rapporto fra segno e colore determina precise influenze sul ruolo del movimento e sulla funzione spaziale. Nelle opere di Carla Accardi, l’inesorabile progressione del peso cromatico nella composizione, ha rappresentato un analogo incremento del significato riservato alla materia e, conseguentemente, allo spazio. La luce si presenta quindi in queste opere come il debole pertugio attraverso il quale s’inserisce l’irruenza espressiva del colore e, nello stesso tempo, l’esito di una ricerca che rifiuta gli approdi narrativi per sviluppare nuove e più complesse articolazioni. Così, il ricorso a cromie plastiche, a squillanti bagliori che sconfinano nelle fluorescenze o nelle eleganti riflessioni ceramiche, sono il segnale di un fremito analitico che scuote la percezione e investe la sfera dell’immaginazione. Il livello di coinvolgimento della visionarietà fantastica non è di solo appannaggio dell’iconografia segnica, anche la dimensione cromatica reclama il piacere della sorpresa e della curiosità. Ecco allora che nelle opere in sicofoil, a partire dai primi anni settanta, l’esplosione cromatica assume i toni di una penetrazione luminosa, capace di rendere radiosi e chimicamente allucinati i colori, fino ad attraversarli in una trasparenza di pura luce. La trasparenza è il nuovo elemento che, attraverso la necessità di spazio, determina un senso di dinamismo, una sorta di vitalità del segno che inizia a vibrare nello spazio, a sovrapporsi e confondersi, a proiettare la propria ombra, alludendo così a una realtà evidente e a una più celata. Riappare, sotto questo aspetto di luminosa trasparenza, quella spiritualità un po’ magica e sciamanica che già era stata colta negli scatti del segno. Una nuova sorpresa, un ulteriore spiazzamento, un sobbalzo accidentale che mette in guardia da una lettura troppo lineare e prevedibile.

L’arte di Carla Accardi non si lascia decifrare facilmente, non risulta remissiva all’interpretazione critica, è piuttosto un tortuoso percorso linguistico che accetta sempre nuove sfide e non teme di mettersi costantemente in gioco. La necessità spaziale, messa in evidenza dalla trasparente luminosità, sviluppa anche un’attenta consapevolezza volumetrica, dove è possibile esaltare sia il dinamismo narrativo che il piacere percettivo. Non più e non solo una sagomatura dei telai che accentua e ordina la vivacità del segno, ma la più autentica delimitazione volumetrica dello spazio. Quindi, un concettualismo compositivo che ordina tridimensionalmente il segno e la sua trasparenza. Nascono così le idee per le Tende, la Casa labirinto, gli Armadi, opere che rimandano alla musicalità del percorsi di Richard Serra o all’energia degli igloo di Mario Merz, ma anche alla purezza dei più recenti ambienti di Rachel Whiteread. Anche in questi casi, l’oggetto spaziale ospita lo sguardo in un rincorrersi di luci e segni, che si dispongono lungo le direttrici di una struttura compositiva di assoluto rigore concettuale.

Ancora una volta l’apparente puritanesimo astratto, formalmente ineccepibile, convive con un’evocativa sospensione poetica che occulta ogni appiglio temporale, abbandonando l’immagine a un’attualità sconcertante.

In tale atmosfera l’oggetto si dissolve, dimentica la propria sicura fisicità per invadere lo spazio ambientale e abbandonarsi a uno sguardo invadentemente complice. Si tratta di un ultimo ed estremo azzardo che travolge ogni grammatica e ogni limite, per imporre una presenza esterna, una sorta di tattile esperienza abitativa che trasforma la presenza del segno in un’esistenza reale. Il movimento ha il sopravvento sul tempo, l’avventura installattiva completa il percorso di un dinamismo intellettuale che ora presenta la propria urgenza fisica e che, nel contempo, impedisce ogni stabilità cronologica. Queste opere vogliono essere attraversate, toccate, il territorio dei Coni di ceramica deve essere abitato come vissuta risulta la Casa labirinto o la Tenda e così il tempo si arresta in un vortice di contemporaneità che stupisce e che restituisce alle opere di Carla Accardi un’attualità indecifrabile. Ma il movimento segna anche una profonda modificazione del concetto di spazio che non può più essere delimitato ed esterno ma avvolgente, espanso, liquidamene incontenibile. Allo stesso modo, la visione non può più solo essere frontale, determinata, familiarmente affidabile bensì strabica, sfuggente, inevitabilmente sorprendente. Il linguaggio muta carattere e ritmo ma non disperde il ricco patrimonio poetico che intimamente sostiene l’impianto concettuale dell’opera.

È il volto enigmatico di un sofisticato intellettualismo che non si lascia confinare nell’ascesi della ricerca ma nasconde il brivido di una sincera emozione.

Si tratta in realtà di una costante sovrapposizione di livelli interpretativi che sedimentano il mistero del significato e, nello stesso tempo, stimolano l’eccitante curiosità percettiva. Nelle opere di Carla Accardi il segno si rasserena dunque nelle atmosfere colorate che, con la loro lucentezza e trasparenza, conferiscono allo spazio non solo un corpo oggettuale ma anche una dimensione ambientale e installativa. E lungo il margine di tale percorso che il tempo si ammutolisce e la rigidità della sperimentazione linguistica si dissolve nel mistero fantastico dell’incanto poetico.

Il lavoro di Carla Accardi testimonia la complessità di un territorio narrativo aspro; è però anche il risultato di un coraggioso e puntiglioso percorso professionale che ha sempre saputo confrontarsi con gli esiti più innovativi della ricerca, senza alcun tentennamento o timore di compromettere le sicurezze conquistate.

Un lavoro curioso, sempre rivolto al futuro, un’arte che con coerenza e personalità ha sempre guardato con attenzione alle sorprese dei nuovi linguaggi.

Per questo motivo l’opera di Carla Accardi è amata e studiata dalle nuove generazioni, per questo il suo lavoro respira un’attualità insospettabile.