(estratto da: Fabrizio D’Amico, Roma 1950-’59, cat. della mostra a cura di F. D’Amico, Ferrara, Palazzo dei Diamanti, 1995)
“Abitavano in una camera d’affitto in via Flaminia e dipingevano come potevano, in quel piccolo spazio” (Piero Dorazio).
“L’arte deve essere meccanica […] avere un procedimento meccanico […] oppure deve essere sempre un gesto nuovo e imprevedibile della coscienza?” (Antonio Sanfilippo).
Un ricordo di Dorazio, relativo al tempo primo di Carla Accardi e Antonio Sanfilippo a Roma; e una domanda, che Sanfilippo si pose esplicitamente solo a metà degli anni Sessanta, ma il cui carico d’ansia svela la tensione ideale che era stata di entrambi quando, dieci anni avanti, nasceva la loro maturità.
Avevano militato, anch’essi, nelle file dei giovani di Forma; e come i compagni di strada s’erano dati a riscoprire le fonti ai loro occhi essenziali dell’avventura moderna. All’esperienza comune d’area neocubista, Accardi aveva forse aggiunto una sua particolare attenzione a Prampolini, Sanfilippo una nozione più intera della pittura d’immediato dopoguerra di de Staël: ma in modo né per l’una né per l’altro determinante a connotarne la pittura.
Per entrambi, è il ’53 l’anno cruciale. Su una tela talvolta lasciata spoglia di preparazione (Bruno su tela grezza, fra altri esempi) prendevano allora figura i segni dell’Accardi: brevi crampi della mano, rattratte traiettorie d’energia come esplodenti da un groppo centrale verso i confini estremi, e più pacati, dell’immagine. Per essi, certo contava una oramai diffusa cultura figurativa, d’ambito soprattutto francese, che affidava al segno, inteso come monema plastico, il compito di designare l’immagine: e Mathieu, ad esempio, è una delle fonti possibili della peculiare vicenda della Accardi.
Che trova però nella situazione romana – in Capogrossi e, più mediatamente, in Burri – l’innesco ultimo per la propria autonoma crescita. A Burri certo risale quell’intendere la materia, e il suo possibile splendore, come parola tronca, da dire secca e senza orpelli; e quel raggiungere l’incanto della pittura lontano da risapute alchimie, e quasi – come esemplarmente attesta la tramatura della tela lasciata in vista, e che pur dialoga da pari a pari con il poco colore sovrammesso – “per via di levare”. A Capogrossi rinvia ovviamente il restringersi attorno a quel segno senza codice e senza messaggio, che non è scrittura né gesto, ma va per il mondo carico soltanto di quella che Tapié definirà di qui a poco “la gravité magique de sa nécessité”.
Eppure, se questi sono gli abbrivi – scelti non per caso dalla Accardi, in una situazione ricchissima di sollecitazioni forti, fra i più programmaticamente lontani da ogni tentazione pittoricistica – tutto diverso è poi il passo della sua opera: della quale proprio la stretta contiguità morfologica con l’altra di Capogrossi consente di verificare agevolmente, rispetto a quella, tutta la distanza. Tanto paziente, sistematico, senza sogni era il segno in Capogrossi, quanto al contrario epigrammatico, incauto, accelerato è quello di Accardi: aggregato sulla tela per addensamenti bruschi e improvvise rarefazioni, per vertiginose ascese e collassi d’equilibrio, disperso da folate di vento e subito appresso chiamato a raccolta, attorno ad un nucleo centrale, da un ritorno inatteso di memorie figurali (Animale immaginario), venate d’ironia.
Poi il franare ultimo della seduzione possibile del tono (ancora, episodicamente, tentante la pittura di Accardi fino al ’54: Materico con grigi, ad esempio) nella dialettica severa del bianco-nero. Non-colori, sono: e però, entrambi, luminosi; disposti a scambiarsi vicendevolmente, sulla superficie nella quale s’iscrivono, il ruolo di figura e fondo; suscitatori di un’oscillazione ottica che, se non sfocia nell’artificio di un’ambiguità percettiva calcolatamente esperita, coglie però tutte le potenzialità dinamizzanti implicite in una visione priva di stabili riferimenti spaziali.
Infine, sullo scadere del decennio, il crescere frequente della dimensione dei dipinti, e il reingresso d’un unico timbro cromatico, ma clamoroso (il rosso, sovente), accanto alla dialettica del bianco-nero, accompagnano lo sviluppo ormai prossimo della Accardi: che si volgerà – riassumendo la lezione più alta di Matisse – verso una pittura di luce concepita e offerta al suo diapason, nella quale il resistente motivo del segno danzante sulla superficie scioglie l’antica asprezza in incanto, e l’accumulo di negazioni in gioiosa asserzione dei talenti elementari, e immutabili, della pittura.
Con Un principio, 1952, Sanfilippo esce d’un tratto dalle tarsie magnelliane, e mette in figura quei fasciami d’energia che, desunti da Burri, faranno – tanto dopo – le bende di Scarpitta. È una via, questa, non ulteriormente percorsa dal pittore siciliano, ma che vale ad avvisare come anche per lui sia definitivamente trascorso, a quella data, il tempo del cauto aggiornamento sull’Europa. L’anno seguente, è già una maturità densa quella dei dipinti senza orizzonte, saturati dal segno in un “horror vacui” (Patera) né furente né ansioso, che sparge ovunque sulla pagina pittorica una fitta miriade di segni e di colori – ancora, oltre ogni spavento di riscrivere una storia trascorsa, tonalmente accordati.
Sanfilippo, fin d’ora, non arretra di fronte alle seduzioni, alla grazia, alla vasariana “facilità” della pittura. Era quanto Marchiori molto precocemente intuiva, rischiando per lui una parola desueta, e quasi messa al bando dalla tradizione moderna: dopo un tempo affannato “di ricerche, di esperienze, di tentativi”, diceva, ora “si può anche parlare di poesia”. Ed era, egualmente, quanto – pur nel dialogo che Sanfilippo continua a intrecciare con la cultura segnica internazionale: dopo Tal Coat, Vieira da Silva, Riopelle; infine, e diversamente, Tobey – assicurava già allora la fortissima individualità d’una ricerca sempre renitente all’accerchiamento del pensiero sulla fabbrilità, del rigore sulla devianza, del progetto sul mai interamente preventivabile destino dell’opera. Soprattutto incanto, aveva battezzato Dorazio un suo quadro del 1950, ancora acerbo eppure d’incostante, quasi cieca felicità: e sembra, quel titolo, predire – di Sanfilippo, di cui l’artista romano sarà negli anni uno degli interpreti più lucidi – la pittura che verrà: conta infatti fin dagli anni germinali – quest’avvio dei Cinquanta – codesta fonda sua vocazione all’ “incanto”: e conterà, identicamente e vieppiù abbandonata, nel tempo futuro. In misteriosa coincidenza con le ansie di un animo ogni giorno più sofferente.
Le tangenze con la Accardi sono, contro la tanta insipienza critica che allora si sparse a piene mani, minime e inessenziali: forse appena più stringenti attorno al 1955, quando l’approdo di lei al dialogo secco del bianco-nero tenta per un attimo anche il compagno. Ma anche in alcuni, rari dipinti più castigati di Sanfilippo databili a quei mesi – con la rarefazione cromatica che non arriva mai all’assoluta, algida purezza del monocromo – è il suo segno diverso a tracciare il confine tra due esperienze nel profondo difformi; un segno impreventivo e minuto, nascosto quasi nella figura, crepitante nello spazio espanso che abita.
“Solamente ritmo senza forma del segno: che è rapido (non studiato), anche trascurato”, appunta nel ’57: quando ha ormai intuito quella conformazione, prevalentemente verticale, del suo spazio sulla quale costruirà le sue torri di luce e materia, prima, e le galassie celesti dei segni poi. Disperso così in una spazialità che spera l’infinitezza, il segno di Sanfilippo depone ogni icasticità, e si offre come strumento anodino (non denotato, dunque, semanticamente) al ritmo e alla tarsia cromatica dell’immagine: ornamentum, davvero, in una pittura memore dei secolari splendori della decorazione, di cui Sanfilippo a Roma intuì per primo, e contro tutti, la liceità nella vicenda del moderno.
Roma, 1956.