in Carla Accardi, catalogo della mostra, a cura di Danilo Eccher, Roma, MACRO Museo d’Arte Contemporanea Roma, 19 settembre 2004 – 9 gennaio 2005
Mondadori Electa, Milano, 2004, pp. 96-121
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Quando infuriava la seconda guerra mondiale Carla Accardi, seconda di quattro figli, padre ingegnere, madre proprietaria di saline, viveva a Trapani. E disegnava. Nei giorni dei bombardamenti si trasferì a Erice. Fu li che vide per la prima volta due soldati americani. Due “giovanotti” in uniforme spuntarono da una collinetta e gentilmente I’aiutarono a spostare della legna. Era in corso I’operazione “Husky” e pochi mesi dopo la fine di questa campagna militare, che in trentanove giorni permise agli alleati di liberare la Sicilia dal nazifascisti, nel 1944, appena ventenne, si trasferì a Palermo. E continuava a disegnare e dipingere. Iniziò così un viaggio che dopo sessant’anni, nel 2004, non si è ancora concluso.
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Ho frequentato il liceo classico, amavo il disegno. Sin da piccola. Ritratti, paesaggi. E in solitudine approfondivo gli studi sull’arte rinascimentale, sull’arte egizia, ma soprattutto su quella moderna, tanto che mio padre mi regalò l’enciclopedia della Hoepli. Non ostacolava questa mia passione. Anzi, ne era orgoglioso. Appena finiti gli esami di maturità chiesi di partire per andare a studiare arte. Fu così che arrivai a Palermo insieme a mio fratello Gaspare. Cominciai a frequentare l’Accademia di Belle Arti.
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Fu a Palermo che incontrò per la prima volta Antonio Sanfilippo, che poi diventò suo marito. Ma non era soddisfatta della città. Perché?
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Non ero soddisfatta degli studi. Nel 1946 andai a Firenze. Restai solo due mesi. Troppa Accademia. Con Sanfilippo, che ritrovai, andavo a copiare il Beato Angelico. Disegnavo, disegnavo… ma l’Accademia non mi piaceva… lo sognavo Kandinskij, Mondrian… II mio professore era il pittore Giovanni Colacicchi, non potevamo avere la stessa visione dell’arte. Sosteneva la figurazione classica e, in generale, aveva un modo di pensare I’arte per me ristretto. In quel momento non mi interessava neppure Morandi. Allora scrissi una lettera ai miei, dicendo: non frequenterò più I’Accademia e vado a Roma. Anche allora i figli davano dei colpi ai genitori.
Mia madre, comunque, adorava Roma dove aveva vissuto e studiato: scuola elementare e magistrali. Nella capitale abitavo in una camera in affitto.
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Sanfilippo le presentò Pietro Consagra e Giulio Turcato. Cominciò a frequentare lo studio di Consagra che all’epoca era ospite di Renato Guttuso al 58 di via Margutta. Che tipo di mondo artistico si andava delineando? Come prese vita il gruppo Forma 1?
ca
Incontrai Piero Dorazio, Mino Guerrini, Achille Perilli. Turcato era il più grande. Ogni tanto dallo studio di Consagra passava Severini che apprezzava i lavori del gruppo. Una volta definì i miei pieni di verve. Era cominciato quel cammino che nel 1947 mi permise di realizzare il mio primo quadro astratto, Scomposizioni. Era un tema abbastanza generale per tutti quelli del gruppo.
Facemmo delle scomposizioni geometriche. Ognuno in modo diverso. Ma era la geometria che ci sembrava la cosa più astratta. Dipingevo dei triangoli che si incrociavano. Ricordo che quando feci per la prima volta una cosa astratta, andai in campagna, in un prato, ero emozionatissima per questo cambiamento. In questo periodo fu pubblicato il manifesto di Forma 1. Fu una scelta ideale e ideologica arrivata dopo molte discussioni. Per me questa era l’arte.
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L’artista contro fu Guttuso, paladino del realismo che ospitava Consagra. Che rapporti ha avuto con Guttuso?
ca
Rapporti leggeri, un po’ superficiali. Quando si formò il gruppo, lui si arrabbiò e disse: “Ah, volete fare così?” E fece il disegno di uno scarabocchio. Lui era comunista, ma a quel tempo anch’io ero iscritta al partito comunista. Lui sosteneva il figurativo. Lo voleva anche il partito. Attardi, in quel periodo schierato con Forma, dopo uno o due anni si lasciò attirare dal partito e tornò al figurativo.
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Questo atteggiamento del partito, le polemiche con “L’Unità” e con “Rinascita”, dove nel 1952 fu pubblicato il famoso articolo che sconfessava l’astrattismo e dove si diceva che l’arte deve essere lo specchio della realtà sociale, la condizionarono?
ca
No. lo avevo fatto la mia scelta, i punti di riferimento erano quelli che ho nominato, grandi artisti astratti, Kandinskij, Klee e Mondrian. Non fui condizionata dalle opinioni di Togliatti. Neppure gli altri. Eravamo d’accordo, ero contro queste posizioni. Antonello Trombadori ci attaccava in continuazione. Ma non eravamo preoccupati. Noi eravamo arrabbiati perché volevamo rinnovare, volevamo fare una cosa. L’astrazione per noi era l’arte del secolo, che già era iniziata, e quella dovevamo seguire.
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Quella Roma degli anni cinquanta in cui accadevano queste cose, come era?
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Ricordo Mafai molto simpatico, però non interessante per me. E poi c’erano pittori figurativi, molto in auge. A parte Guttuso, si esaltava molto Scipione… Per noi era una realtà non interessante.
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E il partito comunista? Nel 1956 non rinnovò la tessera. Perché?
ca
Seguivo la mia ispirazione d’arte, importantissima, non il partito comunista. Frequentavo la sede di via Tomacelli, molto simpatica. Andavamo verso sera. C’erano molti giovani, si ballava anche, si facevano cose giovanili. Nulla di più. Ero consapevole che gli altri non sapevano niente dell’arte, che è una cosa che nasce da una passione, che deve restare personale, che uno fa propria nel silenzio, non nella chiacchiera. L’avanguardia politica non andava di pari passo con l’avanguardia artistica e l’intesa tra noi pittori d’avanguardia e il partito durò poco più di due anni. Anche perché il campo dell’arte fu sempre più politicizzato. Il neorealismo e il realismo socialista ci relegarono ai margini della vita culturale comunista. Poi ci furono i fatti d’Ungheria, il XX Congresso del Pcus… Non rinnovai più la tessera. La politica per la mia arte, comunque, era marginale. Va anche detto che nel gruppo eravamo comunisti io, Totò (Antonio Sanfilippo, ndr) e Turcato. Perilli e Dorazio erano socialisti, perciò non è che eravamo completamente da quella parte. Quello che più mi interessava però, l’avventura vera per me era il gruppo.
Si credeva di cambiare il mondo con il marxismo, con la psicanalisi, ma anche con l’astrattismo.
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Tutti uomini. Non si sentiva isolata?
ca
No, non mi sentivo isolata. Certo, ero più amica di Sanfilippo che non di Perilli e Dorazio. Con Sanfilippo mi sposai. Avevamo le stesse idee, ma con caratteri diversi.
Avevamo anche due studi diversi.
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Negli anni cinquanta ci furono le sue prime mostre. Era difficile per una donna presentarsi come pittore?
ca
Mi ero creata una maniera di vivere sempre dentro un ambiente favorevole, anche minimo, però favorevole, perché avevo bisogno di quello. Avevo un carattere aperto, sono molto comunicativa. Non avevo problemi nei rapporti con la gente. Sono stata anche fortunata. A Parigi incontrai Michel Tapié che si interessò del mio lavoro, si entusiasmò. Mi presentò a Stadler che mi fece partecipare a una collettiva e poi organizzò una mia personale nella sua galleria parigina.
In Italia per la mia carriera è stato fondamentale l’incontro con il gallerista torinese Luciano Pistoi, che mi ha sempre sostenuto, incoraggiato, ha sempre creduto nella mia pittura.
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Tornando alla politica, lei ha avuto negli anni settanta un’esperienza femminista molto forte da cui poi è uscita. Cosa è accaduto?
ca
È vero. Con una mia amica, la studiosa d’arte contemporanea Carla Lonzi, sono stata profondamente coinvolta nel femminismo. Per questo ho avuto anche dei problemi personali. Insegnavo a scuola, le mie allieve avevano il compito di preparare delle tesine dove raccontavano i rapporti con il padre e il fratello.
Le raccolsi in un librettino, i libretti verdi. Questa iniziativa non piacque. In più a scuola leggevo il manifesto del nostro gruppo. Fui, in pratica, licenziata. Ero convinta che le donne erano sacrificate, che erano volutamente mantenute in secondo piano. Lottavo per la parità.
A Roma nel 1975 abbiamo avuto anche uno spazio in via Beato Angelico che fu inaugurato da una mostra su Artemisia Gentileschi. Sul segno femminile c’è qualcosa che non sempre viene compreso. Ed è innegabile che il bagaglio tra uomo e donna è diverso. Ho partecipato in prima persona al movimento che ha riportato fuori tante verità, ma poi ho abbandonato determinate posizioni quando sono arrivate letture quasi esclusivamente politiche. La politica mi coinvolge come essere umano ma non come artista.
Questo l’avevo capito fin dagli anni cinquanta.
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Sempre negli anni settanta lei ha vissuto a lungo in Marocco, a Casablanca e Tangeri. Ha risentito di quest’incontro con un mondo altro, con l’arte islamica?
ca
Sinceramente non credo. La mia arte era già definita. C’è stata una mia mostra, ho realizzato un lavoro in un albergo. Ma il mio lavoro era già compiuto.
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Quanto è stato forte il rapporto con Antonio Sanfilippo, che è stato suo marito e da cui ha avuto una figlia, Antonella. Ha influenzato il suo modo di fare arte?
ca
Ci siamo sposati tre anni dopo esserci conosciuti. Abbiamo lavorato insieme a Firenze. L’ammiravo molto come compagno, per le sue idee, perché mi dava una sensazione di sicurezza nell’entrare nel mondo dell’arte. Come studente era più avanti di tutti come idee. Il contenuto principale del nostro rapporto era quello dell’arte. Ma ognuno di noi aveva il suo modo di pensare e di lavorare tanto che, nella casa di via del Babuino, dove vivo ancor oggi, avevamo studi completamente separati, in due stanze e in due piani diversi. Certo, ci può essere stata della competizione ma ognuno ha seguito la sua strada, che a un certo punto si è completamente separata: diverso il modo di lavorare, le amicizie, i galleristi.
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Per lei cos’è la figurazione? E come si arriva all’astrazione?
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La figurazione è la cosa più importante del nostro passato. Ma noi pensavamo, e lo penso ancor oggi, che non si può avere un’arte che ha come contenuto sempre l’uomo, la figura dell’uomo. L’arte può e deve essere come la musica, che ha in se stessa delle doti e ti trasmette della spiritualità. Ed è così che è nata la mia pittura, a cui sono arrivata con un cammino personale, segnato da incontri di amici come Consagra, Burri, Fontana. Dei grandi maestri, nei vari momenti, ho amato Kandinskij o Klee, Mondrian o Matisse.
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E Picasso?
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Lo conobbi alla fine degli anni quaranta, durante una serata a casa di Luchino Visconti. C’era a Roma un convegno sulla pace. Fu subito circondato da tutti gli artisti presenti a casa del regista, me compresa, ovviamente. Raccontò il suo modo di fare scultura, di come girasse per le campagne francesi per raccogliere oggetti da mettere insieme per fare i suoi assemblages. Ma non ha influenzato il mio segno che prendeva vita proprio in quel periodo.
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Nasce dunque il segno di Carla Accardi. Cos’è per lei il segno? Quando è cominciato?
ca
Negli anni cinquanta, prima un segno essenziale, poi strutturale. Il segno è un elemento che è parte dell’universo. Non ricordo bene l’anno ma credo fosse intorno al 1952. Avevo avuto un anno di crisi, credevo di non poter far più niente nella pittura. Mi ero isolata e ho cominciato a disegnare direttamente per terra. Tracciavo dei segni. Ho usato il bianco sul nero, mi stimolava, mi sembrava qualcosa di unico. Da quel momento ho cominciato a fare dei disegni uno sull’altro che hanno prodotto segni fortemente differenziati. All’inizio non c’era molta grazia. Ma dal loro studio è nata una popolazione, una selva, una natura reinventata, quasi delle costruzioni giganti che sognavo la notte. Ogni giorno rivedevo i lavori. Ma il segno non è solo uno sfogo dell’inconscio. È espressione artistica e linguaggio. Un segno esiste in rapporto ad altri dal momento che forma con essi una struttura. Il mio scopo è di rappresentare l’impulso vitale che è nel mondo. Bianco e nero inizialmente. Le forme cambiavano, però erano pulite, incastrate formavano delle strutture eseguite in doppio strato perché dovevano diventare precisissime.
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Ma c’è stato un momento preciso in cui è maturato il segno in bianco e nero?
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Probabilmente ho avuto delle intuizioni, delle sensazioni che poi hanno maturato dentro di me dopo una visita a una mostra di Hans Hartung.
Fu allora che iniziai a tracciare dei segni, larghi. Poi sono arrivata a un segno nato da un interesse verso lo strutturalismo e del quale diedi l’immagine visiva. Ho dato immagine alla visione strutturalista del mondo. Ogni segno ha un periodo, ogni segno ha un significato diverso, può essere ieratico o orientale, è stato iconograficamente molto ricco ma anche molto povero, quasi anonimo.
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Come è nata l’idea di usare il sicofoil, una plastica trasparente?
ca
Ero e sono aperta alle cose nuove, ai nuovi mezzi, tant’è vero che, come fanno poi in ogni epoca i giovani, non volevo usare mezzi sorpassati. Non ho mai comprato il cavalletto. Per non dipingere sul cavalletto ho dipinto per terra e poi ho usato un tavolo. Un giorno mi portarono in studio questo materiale, perché volevano riprodurre un mio lavoro. Mi incuriosì quel materiale. Pensai: voglio provare a usarlo perché così svelo i misteri che sono dietro l’arte.
L’interesse per me era la trasparenza, si vedeva il telaio. Questo è stato l’inizio, l’ispirazione. Volevo rendere trasparente quello che era intorno a noi. Erano gli anni sessanta. E allora trovai dei colori che potevano aderire, senza staccarsi, e poi la maniera per dipingere. Preparavo dei fogli di carta dove facevo il disegno. Un lavoro di pazienza. E poi il colore, fino al fluorescente che per me esprime la progressiva ricerca di una luce sempre maggiore. Ma più che i colori amo gli accostamenti e l’emanazione di luce che ne deriva. Ho usato il rosso con il verde, il rosa con il celeste. L’importante è che abbiano la stessa forza e che non siano solo complementari.
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E perché ha realizzato con questo materiale le Tende, perché gli Ambienti?
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Forse è stato a causa di una visita al mausoleo di Galla Placidia a Ravenna. Ne parlai a lungo con Carla Lonzi. E pensai a un ambiente in cui eliminare la dicotomia, allora molto forte, tra l’architettura e le arti visive. Ecco l’ambiente, ecco la mia prima Tenda che è del 1965, rossa e verde e che ha la forma di un tempietto. Fu un lavoro lunghissimo, completamente eseguito in prima persona. E gli ambienti, l’Ambiente arancio che annulla le frontiere arte-vita: un ombrello, un letto… È quasi una casa, ma di un mondo rarefatto, che, magari inconsciamente, si ricollega all’esperienza del Bauhaus. Ma non è un modello vero, applicabile. Era un voler spingere la gente a vivere in modo differente, naturale. Sono stati lavori dalla realizzazione molto complessa, con progressioni minime dei segni. È il superamento, il cambiamento progressivo dell’arte.
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Cos’è il colore?
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È forza. Ho cercato dei colori che suscitassero molto contrasto per far capire, liberare la luce, il mondo. Non mi interessa il colore per la sua capacità di procurare piacere al senso della vista, ma per la potenza e la capacità di procurare degli stimoli.
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Poi è arrivata la fase che è ancora in corso, il ritorno alla tela grezza, a una pittura che più pittura…
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Ho sempre usato la pittura come un’ispirazione di antipittura, è un desiderio di contraddizione. Gli ultimi lavori ne sono una conferma. Si vede il bianco e nero, e il colore contrastante degli anni sessanta. Ho cercato della tela grezza, ho creato dei dittici di grandi dimensioni.
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Dall’inizio della sua avventura artistica è passato più di mezzo secolo. Eppure ancora ci sono dibattiti, contestazioni, discussioni su figurativo e astratto…
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Oggi cosa c’è bisogno di dire della figurazione? Vorrei ricordare un pensiero, una frase celebre: prima commuovere e poi far capire.