Dagli esordi alla fine degli anni Cinquanta.2018-01-31T10:50:21+00:00
Dagli esordi alla fine degli anni Cinquanta
di Fabrizio D’Amico

in G. Appella, F. D’Amico, Antonio Sanfilippo. Catalogo generale dei dipinti,
De Luca editori d’arte, Roma 2007

L’avvio della stagione matura di Sanfilippo è noto: coincide in sostanza con i primi passi del gruppo “Forma”, cui il pittore aderì fin dalla fondazione. Prima, in rapida sequenza, il suo giungere a Roma dalla Sicilia, con altri giovani – e prima di tutto con Carla Accardi, che diverrà compagna e moglie; il transito, fondamentale per tutti, nello studio di Guttuso, in traccia allora di un moderno linguaggio internazionale; il più distante ma certo fecondo rapporto con Severini. Quindi la traumatica separazione da Guttuso, e la nascita di “Forma”; le piccole, storiche mostre fatte assieme ai compagni di strada ‘romani’; e le più ampie rassegne, d’avanguardia non solo italiana, cui il gruppo partecipa, e che sovente promuove, assieme all’Art Club di Prampolini e ai giovani di Milano.
A monte di ciò, c’è una primissima vocazione alla scultura; poi, presto, la scoperta del colore (“gialli, rossi, verdi, arancioni”), nel plein air della sua terra, Partanna (“ho affrontato con slancio il vento, il sole, la polvere, e il chiasso di alcuni bambini”),  da cui faticherà a separarsi, pur soltanto per raggiungere, a Palermo, Consagra1. L’Accademia di Belle Arti, intanto – a Firenze, poi a Palermo e nuovamente a Firenze; e anche lì, nuove sedute en plein air, e l’alunnato, importante anche se sino ad oggi del tutto dimenticato, presso Carena. A lui si rifà, ad esempio – e quasi testualmente, anche dal punto di vista iconografico – il Senza titolo del 1943 [2], che ripensa ad una delle opere da Carena esposte alla sua vasta personale fiorentina del gennaio di quell’anno, che certo Sanfilippo visitò; e ancora a Carena guarda – nel segno risentito che margina il volto, nell’intensità un poco attonita e misteriosa dello sguardo, nel rapporto tonale fra figura e fondo – quel Ritratto di fanciulla [8] che è il primo dipinto a noi noto certamente esposto da Sanfilippo, nel 1945, a Palermo2.
A questa mostra tenuta al Teatro Massimo nel marzo del ’45 risale fra l’altro il primo documentato incontro con la pittura di Guttuso (che vi esponeva due dipinti, oggi non individuabili)3. Per leggere, peraltro, nell’opera di Sanfilippo le stimmate impresse dall’esempio del più sperimentato conterraneo, occorrerà attendere ancora alcuni mesi: quelli che il giovane trascorrerà nuovamente a Firenze, nella prima metà del ’46. Ha a fianco, allora, la Accardi, ma per certo anche i vecchi maestri, e le usuali frequentazioni d’Accademia. È di questo tempo, ad esempio, la Natura morta [10] (datata in una fotografia d’archivio “gennaio 1946”) che ha sapore tutto nuovo rispetto alle opere precedenti, ma che è lontana parimenti da quelle compiute a Roma dopo l’estate. In particolare i frutti deposti sullo spesso cartone che offre loro come un ventoso ricetto, e tutto quel suo poco spazio, raccolto e sognato più che non sia pianamente esperito, si stacca assai, con le sue ombre profonde che intaccano e modulano i piani cromatici, dalle sintassi purissime che seguiranno di qui a poco. Abita il dipinto un’aura depisisiana, con le poche cose raccolte quasi a caso entro il giro breve dello sguardo. E non sarà stato forse, allora, senza rilievo, e senza che Sanfilippo lo ricordasse ora, l’incontro probabile con le opere che de Pisis aveva esposto nel ’43 prima a quella stessa galleria Michelangelo che aveva accolto poco innanzi le opere di Carena, poi in una personale al Fiore: seppur certo de Pisis, come Carena d’altra parte, doveva sembrare al giovane Sanfilippo appartenente ad un’epoca superata dalle sue nuove speranze.

Dopo il consueto ritorno in Sicilia durante l’estate, Sanfilippo si determina finalmente a sradicarsi dall’isola, e a trasferirsi a Roma. Consagra vi è già giunto, ed è ospite di Guttuso. Verranno in città, a breve, Carla Accardi, e Ugo Attardi: anch’essi gravitando attorno allo studio di via Margutta. Così che esso finì per diventare una specie di casba, un luogo dove tutti andavano, si davano appuntamento, mangiavano e semmai dormivano, si lavavano e si vestivano, discutevano e progettavano. “Il palazzo dei Normanni”, lo chiamò Angelo Ripellino, contando tutti i siciliani che vi facevano tappa quasi obbligata. I siciliani a Roma, dunque, ma non solo: proprio lì, un giorno d’ottobre del ’46, Birolli e Morlotti venuti da Milano avevano dato vita (“con Argan, Maltese e altri”) al “Fronte Nuovo delle Arti”, che correggeva con quel battesimo di più dichiarata intenzione moderna, più aggressivo e battagliero, il nome immaginato a Venezia poco prima da Giuseppe Marchiori per il gruppo che intendeva raccogliere le forze tese ad un rinnovamento finalmente europeo, anti‑novecentesco, della pittura italiana (“Nuova Secessione Artistica Italiana” era stato poco innanzi nominato il futuro movimento, in una riunione veneziana)4.
Assieme a costoro, ai quali Guttuso si sentiva più legato per generazione e per le comuni battaglie sostenute entro “Corrente”, a frequentare via Margutta c’erano i giovanissimi. Distanti una mezza generazione soltanto da quei compagni più sperimentati, essi covavano, pur ancora incertamente, altre e più radicali ribellioni, e strappi più definitivi dai modi italiani d’anteguerra. Con Guttuso che è, quei mesi cruciali fra ’46 e ’47 (“forse con la speranza di poterci controllare”5, ha scritto di recente Perilli: con un sospetto che può essere stato indotto dalle future, drastiche divaricazioni, e non rispecchiare serenamente la realtà di quei giorni), vicinissimo al manipolo dei giovani scapigliati: sul doppio piano dell’ideologia e della prassi. Come attesta, fra l’altro, la testimonianza resa da Guttuso stesso ad Antonello Trombadori che “un pittore contemporaneo italiano (…) non può non inserire nel suo linguaggio l’esperienza cubista”6; e il fatto che egli spinga, e quasi costringa, Marchiori e i veneziani del “Fronte” ad accettare nelle proprie fila Turcato (mentre auspica, pur senza successo, un ingresso nel gruppo anche di Consagra7). A dimostrazione ultima, d’altronde, della vicinanza stretta fra i giovani e Guttuso, egli riceve proprio da uno di loro, Mino Guerrini, nell’aprile del ’47, il riconoscimento d’essere “il miglior pittore italiano”, e “in continuo movimento”8.
Nel “palazzo dei Normanni” di via Margutta, dunque (che nel corso del ’47 verrà abbandonato da Guttuso, trasferitosi nello studio di Villa Massimo, e occupato da Consagra: in un passaggio di consegne che è insieme concreto e ideale), cresce e prende forza l’idea d’un gruppo nuovo che unisca l’opera e i progetti dell’ultima generazione dei ‘romani’ (in realtà, dunque, uno strano mélange di siciliani, di autoctoni, e d’un lombardo‑veneto anomalo come Turcato). Si chiamerà “Forma”, e la sua vita breve avrà un peso politico, uno slancio propositivo e una qualità di pensiero nell’ambito dell’arte nuova italiana del tempo difficilmente sottovalutabili.
Il gruppo – Accardi, Attardi, Consagra, Dorazio, Guerrini, Perilli, Sanfilippo, Turcato – firmò un manifesto, steso nella migliore tradizione dell’avanguardia, datato 15 marzo 1947, e lo pubblicò in aprile nel primo (e poi di fatto unico) numero di un “mensile di arti figurative” (Forma 1, appunto), che intendeva raccogliere interventi sia teorici sia polemicamente legati alla cronaca. “Con la bozza di Forma 1 sotto il braccio”, e con l’”eccitazione al massimo”, Dorazio Guerrini e Perilli partono, la Pasqua del ’47, per Parigi, verso il loro “primo vero contatto con l’Europa”: “gli altri del gruppo erano andati già prima, per il Natale” del 19469.

Fra coloro che avevano per primi preso la strada verso la capitale francese poi ripercorsa da tanti, c’era dunque Sanfilippo (che a Parigi andò con Accardi, Attardi, Consagra, Turcato e Vespignani). Ma occorre fare un breve passo indietro, e guardare alle opere datate o databili 1946 e certamente risalenti alla seconda metà dell’anno, dunque al primo tempo romano del pittore. Anche tenendo in conto l’opportunità di qualche possibile sottrazione al gruppo di dipinti schedati dal pittore come di questi mesi (come ad esempio il Senza titolo [33], datato posteriormente 1947 ma in realtà risalente probabilmente alla prima metà del ’46, e iscrivibile nel piccolo gruppo di nature morte ‘depisisiane’), ciò che subito emerge è il forte incremento della produzione (quantomeno di quella superstite) rispetto al tempo fiorentino. Venti, o poco meno, sono i dipinti che s’affollano in questi pochi mesi, e che tutti – pur in varia misura – portano le stimmate dell’incontro e del dialogo con Guttuso. Taluni sono maggiormente appoggiati alla costa più formalizzante del Guttuso dell’epoca, e non esenti forse anche da una contestuale suggestione di Severini (la Natura morta [12], del 1946. ad esempio); altri, come la Cucitrice [13] dello stesso anno, declinano il soggetto caro a Guttuso, in una cadenza che è però a mezzo fra picassiana e matissiana; altri ancora s’appropriano del segno bruscamente riassuntivo che era stato proprio del Guttuso fra ’45 e ’46 (Figura [21], sempre del ‘46).
Altri infine, fra i più felici, mostrano la via più complessa che Sanfilippo prenderà di qui a poco. Fra essi, ad esempio, un’altra Natura morta [17] dello stesso tempo: con il testuale omaggio a Picasso, certo, ma poi con quel suo spazio sommosso dalle prospettive improvvisamente aperte e bruscamente interrotte, e con quel suo ‘luogo’ in subbuglio prospettico che l’accoglie, così tumultuosamente occupato dall’affannoso e compresso affastellarsi del coacervo d’oggetti che la costituiscono. Così che nel dipinto la turbolenza espressionista non è messa in sordina, ma convive con l’adozione di accordi di tono più morbidi e rilassati (i celesti, i grigi, i rosa – ad esempio – che occupano e incantano la parte superiore del dipinto), e con un volgersi agli stilemi neo-cubisti che par già consapevole dei francesi ‘nuovi’: di cui dunque Sanfilippo prese atto, ancor prima che a Parigi, nella vasta rassegna, ordinata a Roma, alla Galleria Nazionale d’Arte Moderna, “Pittura francese d’oggi”10.
È dunque fra via Margutta (dove, a un passo dagli studi di Guttuso e Turcato, aveva sede anche l’Art Club di Prampolini e Jarema) e la Galleria Nazionale d’Arte Moderna a Valle Giulia che Sanfilippo inizia a scrivere la sua storia di pittore avviato ad una sicura maturità: sulla scorta, nel corso del ’46 e in particolare nella seconda metà dell’’anno, di un comune orientarsi delle migliori intelligenze critiche e artistiche sugli ultimi sviluppi della pittura in Francia. E soprattutto di quella nuova via al cubismo che Raymond Cogniat ha indicato al pubblico italiano, in un articolo della fine del ’45 apparso su “Argine‑Numero”, non come stanca ripresa di vecchi stilemi ma come nuova possibile e vigorosa vicenda d’arte giovanile: la vicenda di coloro che a Parigi, dal ’41, si nominarono i jeunes peintres de tradition française, e che ora interpretano una delle vie più riconosciute verso il rinnovamento11. È questa strada – un bilico slittante tra tradizione moderna e novità di linguaggio – a sedurre adesso Sanfilippo: che la vede a Roma coniugata con l’esempio di Guttuso, che di quelle nuove ipotesi ha peraltro già preso atto a Parigi, declinandole poi nella sua pittura piuttosto nella chiave espressionista che da Picasso muove verso Fougeron, che nell’altra, più rigorosamente formalista, che da Braque conduceva da un canto a Singier o a Tal Coat, dall’altro a Bazaine, Manessier, Bissière, o a Estève e Lapicque.

Lo strappo ultimo da Guttuso avviene – secondo la testimonianza di Achille Perilli – in conseguenza della violenta polemica scoppiata a margine della mostra di Cagli allo Studio d’Arte Palma nel novembre del ’4712; in realtà, se sul piano esistenziale i rapporti fra i giovani da una parte (e fra essi soprattutto i siciliani, tutti militanti nel partito comunista, assieme a Turcato) e Guttuso dall’altra seguitarono sino ad allora ad essere frequenti, la frattura nella ricerca pittorica è già definitiva all’inizio del ’47. Per Sanfilippo, in particolare, il transito picassiano è superato da tutte le opere datate al 1947, tutt’oggi rintracciabili o note attraverso una superstite documentazione. Sovente non intitolate, altre volte nominate soltanto Composizione, talora persino recanti nel titolo un ultimo riferimento figurale (è il caso, ad esempio, del Paesaggio [34], peraltro la prima opera dell’anno, che sarà inviato nel marzo del ’48 alla “Rassegna Nazionale di Arti Figurative”, che aveva preso il luogo della V Quadriennale), sono tutte di piena adesione al neo-cubismo dei jeunes peintres, e a Bazaine in particolare.
In esse, il gioioso caleidoscopio cromatico depone ogni memoria di natura, ogni pur velata allusività ad una realtà referenziale, asserendo la superficie come unico luogo della pittura: in maniera forse ancor più drastica di quanto non avveniva, questi stessi mesi, alle opere di Dorazio (Il ponte di Carlo), o di Perilli (Praga 47, Finestra paesaggio), e assimilandosi strettamente alle Composizioni e alle Scomposizioni di Carla Accardi. È dunque un anno monadico, il 1947, che stringe al suo interno un’unica, coesa determinazione di forma, che s’affaccia ora in tutto il suo nitore agli occhi di Sanfilippo. Al suo interno sono rarissime le eccezioni, quali quella attestata da un Senza titolo [39], che raffigura in realtà una natura morta con brocca e bucranio di chiara ascendenza severiniana; mentre recuperi di tarsie coloristiche più vicine ad un’idea filtrata di natura sono del tutto occasionali, in questo e nel tempo immediatamente successivo13.
D’altra parte quell’anno fu per tutti decisivo – e certo fortemente contrassegnato da serrati pensieri teorici, da intenti programmatici piuttosto che da abbandoni, rilassatezze, voglie, tentazioni disseminate: al punto che, più che sottolineare la breve distanza che può intercorrere fra l’uno e l’altro dei compagni di “Forma”, vale rilevare all’opposto la salda unità di intenti, morali forse ancor prima che formali, dei giovani ‘romani’ al transito fra ’47 e ’48, nel momento in cui dunque ogni ponte con la generazione precedente viene bruscamente interrotto (eccetto, evidentemente, il rapporto con Prampolini, che apertamente li sostiene, ospitandoli e coinvolgendoli nelle molte iniziative dell’Art Club14 ; come d’altronde il vivace confronto di idee e propositi con il gruppo milanese che confluirà nel Mac15, già fautore di stimoli sulla ricerca giovanile della capitale attraverso la circolazione romana del catalogo della mostra milanese d’“Arte astratta e concreta”, nei giorni immediatamente precedenti alla concezione di Forma 1, e poi determinante nel promuovere alla Galleria di Roma, per l’organizzazione di Sottsass ir. e Consagra, la prima grande rassegna d’“Arte astratta in Italia”).
Forse l’ultimo momento di aggregazione per dir così difensiva del gruppo, che vede i protagonisti di “Forma” attestati su posizioni che si vogliono strettamente solidali e coese, è proprio la mostra, aperta nel marzo ’48, della Galleria di Roma. Non per caso, per quanto più specificamente attiene Sanfilippo, egli vi espone quello che è probabilmente il primo suo quadro dell’anno innanzi, il già citato Paesaggio [34], un dipinto che poteva apparirgli allora per qualche verso ‘datato’, e che, nella tarsia cromatica tutta geometrizzante e risolta sulla superficie, si pone a capo delle tante altre analoghe, ordinate scomposizioni del ’4716: quasi volesse attestare, Sanfilippo, scegliendo d’esporre quel dipinto, l’orgoglio e il buon diritto di una sua militanza. Il 1948 e il ’49 costituiscono invece un biennio interlocutorio per i giovani romani: di nuovo slancio, certo, ma anche di ricerche orientate da suggestioni molteplicemente indirizzate; ora, comunque, per la prima volta decisamente ulteriori rispetto all’adesione al linguaggio neo-cubista, e neo-fauve, dei jeunes peintres de tradition française.
È Magnelli, soprattutto, a orientarne adesso la ricerca: e quel che Magnelli rappresentava, vale a dire la tradizione più alta e realmente internazionale della pittura concreta che, nella memoria dei lontani precedenti dati a Parigi nel corso del Trenta da Van Doesburg e da Arp, si percepiva allora in Italia soprattutto attraverso l’eco rinnovata che veniva dalle mostre e dall’iniziativa della parigina galleria René Drouin17, oltreché dall’azione (prevalentemente esercitata su Milano, ma non priva di riscontri anche a Roma) di Max Bill e del concretismo zurighese. I viaggi, poi ‑ numerosi e frequenti ‑ dei giovani a Parigi18, dopo le iniziali scoperte neo-cubiste del ’46‑’47, svelano loro il ruolo importante, e la felicissima stagione recente, del quasi dimenticato maestro fiorentino (al cui studio parigino, ad esempio, fa visita nel ’48 Perilli, che dedicherà a Magnelli nel febbraio del ’49 un ampio intervento sulle pagine de “La Fiera Letteraria”19).
Ma a parte questo diretto riandare alle fonti, è da segnalare il gruppo d’opere importante presentato da Magnelli, prima ancora che alla XXIV Biennale di Venezia, già alla “Rassegna Nazionale di Arti Figurative” (nome che prese la V Quadriennale romana), ove egli esponeva cinque opere nella prima sala, accanto – fra gli altri – all’ultimo Martini, a Savinio e a Severini, e nel cui catalogo Gualtieri di San Lazzaro ricordava come Magnelli fosse allora “considerato dalla critica parigina l’artista che, dopo la morte di Klee e di Kandinsky, ha portato l’arte astratta alla sua più pura espressione”20 ; e d’altra parte l’influenza che lo stesso Magnelli esercita contemporaneamente, e scopertamente, su alcuni dei più prestigiosi maestri del Mac, Soldati in testa. “Lungi dall’essere un’imitazione o un simbolo della natura e perciò un’astrazione, l’arte concreta aspira ad essere essa stessa un oggetto, una forma nuova”, avrebbe scritto di lì a poco Palma Bucarelli21, introducendo, nel gennaio ’49,  una mostra di Dorazio, Guerrini, Manisco e Perilli alla Galleria Chiurazzi, che segnava forse per Roma il primo riscontro pubblico d’una suggestione – quella appunto esercitata dalla pittura magnelliana – che dunque serpeggiava da tempo e diffusamente nella più giovane generazione.

Dei nuovi indirizzi di forma che si daranno egemoni di qui a poco non porta ancora traccia il perduto Senza titolo [46] del 1947 che Sanfilippo invia alla Biennale di Venezia del ’48, ancora orientato verso il picassismo di taluno dei jeunes peintres (Lapique, o Estève), se non direttamente verso lo stesso Picasso naturamortista d’immediato dopoguerra. Non troppo diversa, d’altronde, la Composizione astratta, anch’essa del ’48, inviata a Venezia dalla Accardi (nessun altro dei giovani di “Forma”, con l’eccezione di Turcato che esponeva con il “Fronte Nuovo”, fu ammesso a quella Biennale). D’altra parte, s’è detto come questo biennio ospiti, in ciascuno, tensioni e orientamenti diversi: così, in Sanfilippo, risulta molto prossima ai modi del Turcato coevo una Composizione [53] datata al 1948, mentre vicina a Dorazio, Perilli e al loro risalire alle fonti del dada sarà, poco dopo, Blu [59].
Sempre al ’48, taluni, e per ora rari dipinti (Senza titolo [57]; o Composizione [56] – oggi perduta, ma riprodotta tra l’altro nel piccolo foglio-catalogo della mostra a tre, “Accardi Attardi Sanfilippo”, all’Art Club di Roma del giugno ’4822 – che con i suoi corpi scheggiati e sovrapposti sembra rifarsi direttamente alle Pierres di Magnelli) avviano la conversione al concretismo che si darà pienamente qualche tempo dopo, fra ’50 e ‘51. Quando, nel ’51 appunto, Sanfilippo è nuovamente a Parigi, con Carla Accardi, incontra direttamente Magnelli (e Hartung). Ma, s’è visto, attraverso occasioni e tramiti molteplici egli a quella data già conosce la pittura concreta. Di essa, ad esempio, un panorama assolutamente tempestivo risulta essere stato, importante per lui come per tutti i romani, quello offerto dalla ”3° Mostra Internazionale ‘Arte d’oggi’”, promossa dall’omonimo gruppo fiorentino e ordinata alla galleria La Strozzina, a Firenze, nel giugno 1949: mostra alla quale Sanfilippo partecipò inviando due opere, certamente dunque visitandola, e conoscendovi anche le più recenti declinazioni della pittura concreta, portate alla mostra fiorentina dalla Galerie Denis René: e fra esse di Vasarely, Dewasne, Deyrolle, Mortensen, Piaubert, Poliakoff – tutti guardati con attenzione da Sanfilippo23. Dopo il precoce orientamento su un Magnelli ‘storico’ (orientamento in ogni caso isolato, nell’ambito della produzione di questo tempo) del più sopra citato Senza titolo [57], non registra peraltro la suggestione di questo o d’altro frangente di pittura neo-concreta l’opera documentata nel piccolo catalogo della mostra a tre (ancora con Accardi e Attardi) tenuta da Bergamini a Milano nel febbraio ’50 (e Prampolini scriveva allora, puntuale come al solito: “Sanfilippo invece ‑ sebbene le pitture tengano la stessa misura del concreto ‑ si differenzia ( … ) per una geometrizzazione più dichiarata, più costruttiva”24); ma sì invece, esattamente un anno dopo, la Composizione (???? [73] ????), datata ’50, pubblicata nell’importante catalogo della mostra Arte astratta e concreta in Italia promossa dall’Art Club e dall’Age d’Or alla Galleria Nazionale di Roma25.
In questa, come in molte altre opere datate fra ’50 e ’51, la insistita frantumazione e geometrizzazione dello spazio, e dunque il residuo di memorie post‑cubiste e costruttiviste, sono interamente superate a vantaggio dei più liberi e impreventivabili aggregati plastici che il dettato concretista suggeriva. Sanfilippo, che sembra adesso sondare per la prima volta con curiosità l’ipotesi di uno sviluppo verticale dell’immagine (le due versioni di Azzurro [77 e 90], entrambe del ’51, ad esempio; o, l’anno seguente, La mia occupazione [95]; e ancora Mondo e uomo1  [98], tutti di grande dimensione), organizza la sua ‘figura’ in serrati, animosi incastri d’energia attorno ad un nucleo centrale, nitidamente disponendoli su un fondo di colore unito, che funge quasi da basso continuo al gioioso espandersi d’un colore araldico, clamante, intercalato sempre da ampie zone di bianco assoluto, che si dispongono sulla superficie come a garanti dell’intensa luminosità del dipinto.
Ma, di questo giro d’anni che si dispongono al volgere dei due decenni, è soprattutto peculiare il largo sondare atteggiamenti ed esiti molteplici di forma. Talvolta quasi tonalmente accordato (ad esempio nel già citato Azzurro1 [77] o in un coevo Senza titolo [83]), talvolta singolarmente memore del lirico abbandono d’un primo Kandinsky (Senza titolo [81]), il colore si offre adesso, sovente, in una chiave d’impalpabile leggerezza, costituzionalmente alieno da ogni implicazione e gravità di materia, avvolto e trapunto di luce. Ma convivono con questi, anche, dipinti (il più delle volte trattenuti, come a prova, entro la piccola dimensione) nei quali il segno scrive veloce, quasi in affanno, la tela talora lasciata in parte scoperta (Senza titolo, [105]); ed altri ancora – felicissimi – ove una gestualità contratta lascia sulla tela brevi squarci d’una materia cromatica accesa, determinata, purissima: quasi Sanfilippo rammemorasse esiti (intravisti, forse, nel viaggio parigino del ’51) della pittura di De Staël.

Un gradiente d’intensa luminosità sostiene e struttura infine, più d’ogni altra determinazione di forma, un dipinto che fin dal titolo (Un principio1 [101]) attesta, al ‘52 e certo ai primi mesi di quell’anno, una nuova intenzione di forma di Sanfilippo. Con esso, e a seguire con molti altri dipinti d’analoga impostazione, può dirsi che il pittore esca definitivamente da quel lungo itinerario formativo che ne aveva, pur nobilmente, stretto i passi alla coeva ricerca giovanile, romana e più in generale italiana. Espone, con altre opere, quel quadro di svolta alla personale importante al Cavallino di Venezia del luglio ’5226. E Marchiori, che lo presenta, registra sensibilmente quel transito del pittore a “forme più libere”, disperse in uno “spazio quasi atmosferico”27. Adesso è alla prima visibile il passo che Sanfilippo muove oltre le stagliate, lucide sintassi concretiste: le forme, non più legate fra loro sintatticamente, si sperdono e vagano nel chiarore d’uno spazio emozionato e in tensione; il colore, da trasparente e unito che era, porta ora sul suo corpo la traccia evidente del pennello che l’ha depositato sulla tela e, talvolta almeno, s’intride della sua consistenza materica. Grandi favole prendono figura; nel Senza titolo [97], in Mondo e uomo1 [98], in altri dipinti ancora, tutti esposti a Venezia: favole terrene o celesti, concretissime o favolose, incerte fra saggezza e avventura.
Poco, adesso, è rimasto del connubio stretto tramato con coloro che erano stati sino a quel punto i suoi compagni di strada; e che cercano tutti, d’altronde, in questo avvio di decennio, una via più decisamente personale; il solo Dorazio, forse, stringe ancora talvolta la sua pittura a quella dell’amico. La grande tela de L’Age d’Or, anch’essa 1952, affolla ad esempio in uno stesso spazio sognato analoghe strutture fantastiche: ma con un nitore costruttivo, kleeiano, che non è più di Sanfilippo. Semmai quelle gibbosità, quelle tensioni quasi soffertamente plastiche che, in Un principio, sopportano i bianchi e le ocra che governano il dipinto, è come se valgano come risposta, data sul piano e dentro il registro della pittura, ai “gobbi”, alle tele rilevate e sommosse di Burri.
Quanto sino ad allora era stato rigore, implacabilità quasi della nuova ‘realtà’ (del tutto indipendente ormai dal referente naturalistico e dal successivo processo di astrazione operato nei suoi confronti) che la pittura concreta pretendeva per sé ‑ quant’era stato assioma e certezza, s’incrina, adesso, e si sperde: come quei residui di un eroso geometrismo che ormai più raramente appaiono, ‘figure’ adesso incerte e frananti, assediate dal fondo chiaro che ovunque le assale, nella spazialità sommossa del dipinto. Si slabbrano e fremono, quei corpi smagriti e violati da un’accelerazione franta del fare pittorico: smarriscono l’integra purezza plastica d’un tempo, l’impenetrabilità dei corpi all’aria che li circonda; ed è in questa foga prima sconosciuta che s’annida prima, poi prende forma definitiva, quel modo che di qui a poco sarà detto il “segno” di Sanfilippo.

Ed è nozione, questa del segno, ovviamente cruciale per intendere tutta la sua vicenda maggiore, che appunto da questo tempo in avanti si dipana. Nel contempo, è nozione non facile da delineare: quanto meno in positivo. Certo, quel segno, è e rimarrà lontano dal segno paziente, costruttivo, monadico di Capogrossi (pur quando talvolta – quasi a sfida, o per gioco; o fors’anche per non sentirsi troppo solo nel dar figura alla sua scelta non facile28 – Sanfilippo voglia quasi citarlo, semmai ad un margine del dipinto). Un segno che, come intuì per primo Argan29, implica sopra ogni altra intenzione un’ostinata volontà di comunicazione, al di là d’ogni intenzione di “messaggio” gravido d’un suo contenuto; un segno che, “frutto d’un celibato del pensiero e dello sguardo che non tenta meraviglie”30, non cerca avventure dell’occhio ma percorsi possibili della mente. Diverso – ancora – è il segno di Sanfilippo, da quello di Accardi: chiuso in sé, aspro talora, in questi anni, almeno; teso a cercare nello spazio della tela addensamenti bruschi e improvvise rarefazioni.
In rapida evoluzione, il suo segno – in quest’anno folgorante che è per lui il ’53: anno che inaugura una produzione, anche, più intensa, che giungerà al suo vertice, in questo decennio, nel 1957, con oltre cinquanta quadri schedati nella documentazione d’archivio, quarantacinque dei quali oggi rintracciati – trascorre invece da un tracciato più aperto e spazioso (il Senza titolo [116], ad esempio), di radice ancora hartunghiana, alla franta disseminazione, all’horror vacui che dominerà le composizioni del biennio che ora si apre, modo che tra l’altro appartiene al Senza titolo [120] del 1953, ————————- sovente pubblicato con il titolo Metropoli (titolo che sarà poi frequentemente reiterato negli anni a venire, per opere governate da analoghi intenti formali, con un apice qualitativo toccato forse nel grande dipinto scuro del 1954 [152]), e per il quale è stata sovente nominata una suggestione di Pollock e, forse più plausibilmente, di Tobey. Senza che ‑ né adesso, né nel tempo immediatamente seguente ‑ la critica a lui più vicina (Ponente, segnatamente) faccia ancora esplicito riferimento a questo modo della pittura di Sanfilippo come a quello per lui decisivo31.
Jaroslav Serpan, un pittore della cerchia di Tapié, vicino al clima spazialista veneziano32, è il primo a nominare esplicitamente il segno come elemento strutturante la pittura di Sanfilippo, benché elencandolo fra altre inflessioni di forma (“macchie spontaneamente progettate sulla tela […], grafie aspre e vibranti, segni annodati e snodati, volute e curve”), nella presentazione alla personale che il pittore tiene alla Galleria delle Carrozze di Roma nel ’55. Sarà poi lo stesso Tapié a ritornare con maggior convinzione su questa chiave interpretativa (“plus que le signe, qui, isolé, nous menerait rapidement à un ancore très classique totemisme, c’est l’ensemble de signes qui est maintenant en question”), collegando il modo di Sanfilippo a quello tenuto da Capogrossi e dalla Accardi, e individuando anzi proprio a Roma il luogo privilegiato di questa via nuova e determinante che intraprende adesso l’art autre33. Ma rispetto alla dimensione autre (variamente, peraltro, e con forti oscillazioni individuata dallo stesso Tapié), Sanfilippo trova, in particolare fra ’53 e ’55, molteplici ragioni di distanza: soprattutto per quella costante sua tensione verso l’incanto, la gioia, l’abbandono alle seduzioni infinite della pittura; per quella sua inclinazione a pensare possibile che, “dopo un tempo affannato di ricerche, di esperienze, di tentativi”, la pittura potesse giungere, finalmente libera da troppo vincolanti progetti, sino alla “poesia”. Così aveva scritto Marchiori, in un anno ancora aurorale per Sanfilippo, rischiando per lui quella parola desueta, “poesia”, a lungo messa al bando dalla tradizione moderna34. Così, volle e seppe restare, nel tempo, Sanfilippo: pur nelle sollecitazioni linguistiche forti cui sottopose il suo lavoro; e pur covando sovente nell’animo nascondimenti e dolorosi silenzi, e opposte ragioni esistenziali di sofferenza.

Al cuore di questi suoi anni Cinquanta, non è dunque tanto il segno nella sua accezione autre, col suo portato di scabra, reticente asprezza, con la spoglia sua condizione prelogica e presemantica, ad occupare il pensiero di Sanfilippo; non il segno che consapevolmente si restringe a crampo neutro della mano, motivato soltanto dall’oscuro impulso che Tapié nominò “la gravité magique de sa nécessité”35: ma invece la mano che orna ed incanta, cerca un ritmo, scopre la seduzione di un accordo cromatico, svela uno spazio inatteso e magico ove la pittura possa abitare: “solamente ritmo senza forma del segno, che è rapido (non studiato), anche trascurato”, scrive Sanfilippo nel 5736 – ed è una testimonianza che tanto rivela circa il suo animo e le sue intenzioni di forma.
Ancor prima (1956) aveva annotato per sé: “Nel mio lavoro recente, ma già da quattro anni, mi servo quasi esclusivamente di segni grafici posti sulla superficie con molta immediatezza e rapidità e tali da formare un insieme non arbitrario o casuale ma conseguente a un determinato ragionamento formale. La forma viene così determinata dal complesso variamente raggruppato dei segni che nei miei quadri hanno una grande variazione, cioè non sono ripetuti o collegati ma sempre indipendenti mentre una forza nasce dal loro complesso e vario modo di aggrupparsi”. Ritmo, dunque, dato dalla celerità di scrittura del segno; e sorpresa che viene all’immagine dalla varietà di quel segno. Che “non ha storia, né tradizione”; ma non di meno spera, nella ricerca di “una primordialità innata, necessaria”, un’“emozione”: una “poesia”.
“Poesia”: si ripete qui, con convinzione, la parola arrischiata che fu intuizione di Marchiori. Perché tanto essa definisce della forma di Sanfilippo. Non nell’ottica di sottrarlo all’appartenenza ad una coinè internazionale (segnatamente, quella francese dell’art autre) cui Sanfilippo per certo appartenne, contribuendo anzi a determinarne la variegata complessità; ma per sottolineare come, incorrendo in qualche equivoco, sia stata forse in seguito troppo spesso ribadita, a scapito della più precipua sua vocazione, una lettura esclusivamente segnica del suo lavoro. Così come s’è tenuto sempre lontano dall’orgoglio, dal furore e dalle illimitate speranze del gesto, Sanfilippo s’è invece guardato  (salvo forse un breve passaggio, limitato ad alcuni mesi fra ’55 e ’56, quando emerge la suggestione della Accardi e del dialogo secco del bianco‑nero da lei tentato appunto fra ’54 e ’5537) dal ridurre il suo segno ad aspro morfema plastico. È nato infine impreventivo, quel segno, veloce e cieco, ma sempre carico di speranze. Talvolta minuto, talvolta più espanso, nascosto comunque nella sua ‘figura’ (nuvola, galassia, corpo celeste; o ancora ‘paesaggio’: Osservare le cose, ad esempio, [118]), poi crepitante nella spazialità dilatata che costruisce per sé. Anodino, quasi indifferente (“segni molto semplici e puliti”, “semplici ed elementari”, dirà d’aver sempre cercato), esso esiste soltanto come porzione di colore, e come veicolo di spazio.
All’interno di questo, che è ed ancor più sarà il tragitto maggiore di Sanfilippo, si situa un tempo, breve ma significativo, da dir come d’attesa: abitato da tensioni e tentazioni devianti rispetto alla via maestra che gli si configurava. Il 1956, in particolare: quando sono molti i quadri che confermano e radicalizzano quella scelta del bianco e nero già episodicamente saggiata nel ’55: scelta verso la quale Sanfilippo s’orienta certamente accogliendo le suggestioni di Carla Accardi, e gli orientamenti emersi nella pittura di lei già dall’anno innanzi. È questo, dopo le ovvie convergenze già riscontrate negli anni ormai lontani di “Forma”, il tempo – l’ultimo – in cui si registra una prossimità di intenti fra i due artisti. Riconoscerlo, e riconoscere la priorità di Accardi in questa circostanza, non significa peraltro sottacere le differenze fra i due modi d’accostarsi al monocromo. Per verificarle, basterà guardare, ad esempio, a due dipinti dello stesso ’56, l’Assedio nero su bianco dell’Accardi e il Senza titolo [200] di Sanfilippo. Nel primo, il segno nitidamente delineato costruisce l’immagine attorno ad una sorta di groppo centrale, a un nucleo d’energia centripeta rispetto al quale i margini della pagina pittorica, più rilassati, sono istituiti come fondo; nel dipinto di Sanfilippo il segno, assai più minuto, franto e disperso, satura l’intero campo della tela, che diviene parete occlusa, e sottoposta a una tensione in ogni suo punto analoga.

Già intuita l’anno precedente (per esempio in Nero e rosso [181]), questa spazialità satura, che interdice ogni fuga in una profondità pur non prospetticamente esperita, non sarà a lungo praticata e prediletta da Sanfilippo: che, già a partire dal ’57, arriva a immaginare quello spazio profondo, sempre più spesso costruito sulla verticale, e sempre ampiamente attraversato da zone di bianco e da pause di silenzio, che sarà il suo almeno sino al ’61, e attraverso il quale accederà, nell’arco di lustro d’intensissimo lavoro, alla fase forse più alta del suo percorso.
Dopo l’esperienza, dunque, più severa e contratta del bianco‑nero, episodicamente tentata nel biennio ’55‑’56, il ’57 è anche l’anno della riconquista, per Sanfilippo, del colore come elemento precipuo, e momento cruciale della sua pittura (talvolta, quel colore, condotto ad esiti d’effusione e di macchia fino ad allora sconosciuti), oltre che dell’individuazione definitiva di quello spazio verticale, profondamente scavato dal vuoto, ove prendono figura, s’accendono e divampano – fra esplosioni e cascate di luce – le sue nuove ‘figure’ celesti. È questo il tempo, anche, in cui il pittore risente d’un ormai diffusissimo clima informale, che agisce su di lui tentandolo talora con una materia più densa, più oscura, più drammatica, capace di riassorbire entro il suo spessore turbato il nitore del segno, e la gioia del colore puro.
Ma è un tempo breve: una nuova vicenda, esplicitamente. riconnessa agli anni della prima maturità, sta per aprirsi proprio allo scadere di questi anni Cinquanta.

Note.
1.
2. Si confronti, in particolare, il piccolo Senza titolo [2] di Sanfilippo con Giacobbe lotta con l’angelo, 1939, o con L’angelo sveglia i pastori, 1940, di Carena; e il Ritratto di fanciulla [8] con il Ritratto, ad esempio, del 1940 (quest’ultimo, assieme a L’angelo sveglia i pastori, esposto tra l’altro alla personale che il maestro piemontese ha alla Galleria Michelangelo di Firenze, nel gennaio 1943); vedi Felice Carena, cat. della mostra, a cura di F. Benzi, Torino, Galleria Civica d’Arte Moderna e Contemporanea, 30 gennaio – 7 aprile 1996. Fabbri Editori, Milano, 1996, rispettivamente nn. 70, 73, 72.

3. Sono Scena siciliana e L’annunzio della rivolta; cfr. L’arte per l’elevazione sociale della Sicilia. Artisti palermitani alla prima mostra indetta dalla Federazione del Partito Comunista, cat. della mostra, Palermo, Libreria Flaccovio, [1945].

4. È ben nota la vicenda del gruppo, che ha inizio a Venezia, il 1° ottobre 1946, dove “Undici pittori italiani” (elencati come segue nel documento di fondazione : Birolli, Santomaso, Morlotti, Viani, Pizzinato, Vedova, Cassinari, Guttuso, Mafai, Marini, Levi) si fecero promotori, auspice Marchiori, di un movimento che fu allora battezzato “Nuova Secessione Artistica Italiana”. Non firmarono, perché assenti dalla riunione veneziana, Guttuso, Mafai, Marini e Levi. Gli ultimi tre non avevano dato in realtà la loro adesione, né la diedero in seguito. Cassinari la ritirò subito dopo. Il successivo 26 ottobre Birolli e Morlotti, scesi a Roma, nello studio di Guttuso stilarono una lettera ai compagni veneziani proponendo il nuovo nome del movimento, che si chiamò da allora in avanti “Fronte Nuovo delle Arti”. In occasione della sua prima uscita pubblica, alla Galleria della Spiga di Milano, nel giugno del ’47, il gruppo risultava composto da Birolli, Corpora, Fazzini, Franchina, Guttuso, Leoncillo, Morlotti, Pizzinato, Santomaso, Turcato, Vedova e Viani. Per le vicende del “Fronte Nuovo” rimane fondamentale a tutt’oggi il volume di Marchiori, Il Fronte Nuovo delle Arti, Giorgio Tacchini Editore, Vercelli 1978.

5. A Perilli, L’age d’or di Forma 1, [1994], ed. cons. Edizioni De Luca, Roma 2000, p. 51.

6. A. Trombadori. Negli Studi. Renato Guttuso, “Numero Pittura”, a. III, n. 1, Milano, 15 dicembre 1946.

7. Per la determinazione di Guttuso a favore di Turcato, e per la sua proposta di inserire Consagra nel gruppo, vedi F. D’Amico, Prima pittura di Sanfilippo, in Antonio Sanfilippo, Regione Autonoma Valle d’Aosta, Aosta 1997, pp, 7-8, nota 4.

8. M. Guerrini, Perché  la pittura, “Forma I”, Roma, aprile 1947, p.3. Lo stesso Perilli aveva d’altronde scritto problematicamente ma con appassionata partecipazione sulla mostra che Guttuso aveva allestito allo Studio Palma nel ’47, con opere datate dal ’41 in avanti, tutte in qualche modo testimoni dei travagli neo-cubisti del pittore. “Guttuso, uno dei più interessanti pittori del momento”, scrive Perilli, “merita che gli si parli chiaro e che da lui si pretenda molto, più di quello che si aspetta da altri, e non vorremmo che si fosse chiuso in un vicolo cieco” (A. Perilli, Sviluppo di una polemica, “Alfabeto”, a. III, nn. 19-20, ottobre 1947, p. 4). Risultano dalla nota di Perilli tutti i dubbi sul bilico fra astrattismo e realismo perseguiti da Guttuso, ma insieme una fiducia ancora resistente nelle molte possibilità dell’artista.

9. A. Perilli, L’age d’or…, cit., p. 34.

10. La mostra, introdotta da René Huyghe, s’inaugura a Roma il 12 ottobre del ’46. Il testo di Huyghe è incentrato sui jeunes peintres de tradition française e sul concetto di “non figurativo” che per tanti versi precorre il bilico concettuale dell’“astratto-concreto” riproposto poi da Venturi (complice Corpora) quale possibile via intermedia per la pittura italiana (Pittura francese d’oggi, cat., Roma, Galleria Nazionale d’Arte Moderna e altre sedi, 1946). La rassegna faceva seguito a un progetto di aggiornamento culturale orientato sulla pittura d’oltralpe che era stato avviato, sempre alla Galleria Nazionale, il 9 aprile dello stesso 1946, dalla “Mostra didattica di riproduzioni di pittura moderna francese”, ordinata con materiali d’archivio di Lionello Venturi, e firmata dallo stesso Venturi e da Palma Bucarelli.

11. R. Cogniat, La vie artistique. Promesses d’avenir chez les jeunes peintres, “Argine Numero”, a. I, n. 1, Milano, 1° dicembre 1945. Si ricordi come, molto più tardi, lo stesso Cognat, commissario del Padiglione francese alla XXIV Biennale, ebbe modo di presentarvi, oltre ad una vasta personale di opere recenti di Braque, un ampio panorama della pittura francese post-bellica, comprendente quasi al completo il gruppo dei jeunes peintres.

12. A. Perilli, L’age d’or…, cit,, p. 89.

13. Vedi ad esempio il Paesaggio [63], governato da verdi atmosferici e quasi sensuosi, ove sembra singolarmente istituirsi un rapporto con certi modi di Santomaso o di Birolli, i cui vasti gruppi d’opere possono aver interessato Sanfilippo alla Biennale del ’48.

14. Sono noti i rapporti strettissimi fra Prampolini e i giovani di “Forma” ; si ricorda qui soltanto come Prampolini abbia recensito entusiasticamente – unica eccezione in un panorama critico tramato di dubbi o di aperta derisione – sul numero di gennaio di “Art Club” (Offensiva romana dell’arte astratta, 1948, a. III, n. 16, pp. 7-8) contemporaneamente le mostre di Consagra, Turcato, Guerrini, Dorazio, Perilli e Maugeri tenutasi all’Art Club e quella di Accardi, Attardi, Manisco, Monachesi e Sanfilippo allo Studio d’Arte Moderna di via Margutta, che di fatto sono, a fine ’47, le mostre, separate forse soltanto per fatale ristrettezza di spazi, che propongono per la prima volta al completo i giovani di “Forma”.

15. Per i rapporti dei romani con i giovani (e meno giovani) milanesi vedi soprattutto M.A.C. Movimento Arte Concreta, cat., a cura di L. Caramel, Gallarate, Galleria Civica d’Arte Moderna, Electa, Milano, 1984 (in particolare vol. I, pp. 13-60).

16. Il dipinto è riprodotto al verso del grande foglio che funge da catalogo della mostra, Arte Astratta in Italia, stampato dalla S.E.T. di Torino.

17. Presso la galleria René Drouin, a partire dal ’45, sono regolarmente esposte, tra l’altro, opere di Arp, Van Doesburg, Magnelli, Kandinsky e ancora Herbin, Delaunay, Domela, fino a Mondrian, del quale riscoprirà tutta la decisiva importanza, di qui a poco, la galleria Denise René. Per una sintesi puntuale del ruolo svolto da codeste gallerie nell’immediato dopoguerra a Parigi, vedi L’Art en Europe. Les années décisives. 1945-1953, 1987, Skira, Ginevra, 1987, in particolare alle pp. 134-139 e 210-217.

18. A Parigi, ma non solo: Zurigo, in particolare, e Max Bill – vale a dire il secondo grande polo europeo del concretismo post-bellico – sono determinanti non solo per i milanesi, ma anche per i romani, segnatamente attraverso la conoscenza che ne importa in città Perilli alla fine del ‘48 quando, di ritorno dal secondo viaggio a Parigi, egli fa sosta a Zurigo, visitandovi lo studio di Bill (cfr. ora in particolare l’accurata Biografia, a cura di E. Cristallini, in Achille Perilli. Le carte e i libri. 1946-1992, cat., a cura di F. Di Castro, Roma, Calcografia e Accademia Nazionale di San Luca, Carte Segrete, 1992, p. 184.

19. Ora riprodotto in A. Perilli, L’age d’or …, cit., pp. 112-116.

20. Rassegna Nazionale di Arti Figurative, cat., Roma, Galleria Nazionale d’Arte Moderna, marzo-maggio 1948. Per quanto concerne quel che i giovani romani poterono con più attenzione guardare in quell’occasione, a parte l’opera di Prampolini e Severini, che avevano certamente per altre vie già ben presente, è da segnalare il primo incontro con la pittura storica di Balla, la cui riscoperta da parte degli artisti di “Forma” viene fatta usualmente coincidere con anni più tardi. Di Balla futurista erano esposti a Valle Giulia quattro dipinti, nella sala X (cat., p. 32). Per quanto concerne Magnelli, è infine da notare come Gualtieri di San Lazzaro ricordi come la riscoperta della sua opera, dopo lunga dimenticanza, datasse anche a Parigi a pochi mesi avanti, e precisamente alla retrospettiva dedicatagli dalla Galerie Drouin nel novembre del 1947.

21. Il testo di Palma Bucarelli è ora stralciato in Achille Perilli. Le carte …, cit., p. 150.

22. Accardi, Attardi Sanfilippo, Art Club, Roma, 1948. Il piccolo catalogo è introdotto da un breve testo di Mino Guerrini, e riproduce un’opera di ciascuno degli espositori: la Composizione di Carla Accardi (non ricordata dal catalogo ragionato della sua opera del 1999) sembra guardare a Mirò, con esiti fantastici che interesseranno anche Turcato; mentre la Navigazione di Attardi è di stretta osservanza kandinskiana. Tre orientamenti diversi, dunque, contando anche quello magnelliano della Composizione [56] di Sanfilippo, che attestano la molteplicità degli stimoli allora attivi sui giovani di “Forma”.
Si guardino inoltre alcuni dipinti, dello stesso anno o di quelli immediatamente successivi, di Dorazio, assai simili a questo di Sanfilippo, utili a registrare la stretta affinità nel modo del prelevamento operato, da parte dei due artisti, sull’opera del maestro fiorentino (ad esempio la Sintesi elementare del 1949, riprodotta ora in A. Papenberg-Weber, Piero Dorazio, Die künstlerische Formierung bis 1959, Schwabe, Basel, 2002, p. 76).
Di Sanfilippo, infine, due altre opere, abbastanza eccedenti rispetto alle ricerche coeve, sembreranno, poco dopo, rifarsi direttamente al Magnelli delle Pierres piuttosto che a quello dell’immediato dopoguerra, normalmente più guardato dal gruppo romano: sono Blu [59] del 1948, e il Senza titolo [70] del 1950.

23. Mostra internazionale “Arte d’oggi”, cat. della mostra, Firenze [Palazzo Strozzi], 1949. Il piccolo catalogo si avvale di un lucido testo di Giusto Nicco Fasola. Sanfilippo vi espone una Composizione e un Paesaggio, non identificabili con certezza)

24. E. Prampolini, Accardi Attardi Sanfilippo, cat., galleria Bergamini, Milano, 1950, s.i.p.. E’ questa anche la prima occasione in cui viene colto criticamente quel “clima lirico e armonico” (o ancora “lirico e acceso”) proprio di Sanfilippo, che sarà più avanti individuato da Marchiori come tratto distintivo dell’artista.

25. Arte astratta e concreta in Italia, promossa dall’Age d’Or e dall’Art Club Centrale presso la Galleria Nazionale d’Arte Moderna di Roma, febbraio 1951. Il catalogo, insolitamente ricco per l’epoca (64 pagine numerate, più un foglio separato con un testo di Consagra, evidentemente sfuggito all’impaginazione originaria), è curato da Dorazio e Perilli per le Edizioni dell’Age d’Or e contiene contributi (taluno dei quali gà altrove pubblicato) di Jarema, Argan, Rogers, Prampolini, Dorfles, Perilli, Guerrini, Dorazio, Alfieri, Munari, Nicco Fasola, Galvano e Consagra. Oltre a brevi profili e a una piccola riproduzione di un’opera dei 69 espositori, provenienti da “Roma, Milano, Torino, Napoli, La Spezia, Livorno, Firenze, Venezia”.

26. E’ certo gravido di conseguenze, ben al di là della occasione espositiva, questo primo contatto di Sanfilippo con Cardazzo ; un rapporto poi protrattosi con continuità negli anni a venire, e confermato, per stare solo alle personali, dalle mostre allestite negli anni Cinquanta due volte al Naviglio, poi alla Selecta di Roma, infine nuovamente al Cavallino di Venezia nel ’59. Tutto il clima dello spazialismo si faceva, per suo tramite, prossimo e disponibile al pittore siciliano ; e le sotterranee tangenze che d’ora in avanti si registrano con l’opera pur così diversa di Tancredi possono avere, proprio a muovere di qui, un impulso decisivo (sul primo soggiorno romano nel 1950 di Tancredi – d’altronde allora in via d’una ricerca di se stesso appena avviata – non siamo edotti al punto da ipotizzare con certezza un incontro con Sanfilippo, anche se è certo che egli abbia assiduamente frequentato i giovani di “Forma” ; cfr. F. D’Amico, Tancredi (1950-1954), Martano Editore, Torino, 1988 ; e M. Dalai Emiliani, Tancredi. I dipinti e gli scritti, Allemandi, Torino, 1997).
Per quanto attiene specificamente al dipinto Un principio, nel piccolo catalogo della mostra del Cavallino si indicano per esso le misure di cm 30 x 45, grosso modo corrispondenti ad un altro piccolo dipinto dello stesso titolo [102], schedato dall’artista e poi perduto. Ma non è il piccolo bozzetto, o replica, che Sanfilippo inviò a Venezia, quanto invece certamente il dipinto maggiore [101], come risulta inequivocabilmente da documenti d’archivio. Tra l’altro, a dimostrazione del rilievo che il pittore attribuiva a quel suo dipinto, egli lo espose nuovamente, subito dopo, alla rassegna “L’Arte nella vita del Mezzogiorno d’Italia”, tenuta al Palazzo delle Esposizioni nel marzo del ’53, che fu, dopo la chiusura della personale veneziana, la prima occasione che Sanfilippo ebbe di esporre il dipinto a Roma.

27. G.  Marchiori, Antonio Sanfilippo, cat. della mostra, Venezia, Galleria del Cavallino, 1952.

28. Ancora al ’54, Sanfilippo doveva vedersi identificato su “L’Unità” (il 2 aprile, nella recensione della personale alla Schneider)) come “un artigiano dotato di un certo buon gusto come decoratore”.

29. La lettura fondamentale e definitiva di Argan è in G. C. Argan, M. Fagiolo dell’Arco, Capogrossi, Editalia, Roma, 1967.

30. F. Gualdoni, Capogrossi tolemaico, in Un omaggio a Capogrossi, cat. della mostra, a cura di F. Gualdoni e M. Meneguzzo, Taranto, Palazzo Galeota, 1984, s.i.p..

31. Il primo intervento di rilievo dedicato da Ponente a Sanfilippo appare su “I 4 Soli” (Torino, a. III, n. 5, settembre-ottobre 1955, p. 21), in un testo che, evidenziando già un’indagine sensibile sulla sua pittura recente (“quelle forme diventavano sempre più libere e variate, con una ricerca continua di movimento e di spazio, frastagliate a colpi di pennello, poste sulla tela con un movimento centripeto”), e discutendo la misura delle opposte seduzioni verso l’”automatismo” da un canto, il “controllo di una precisazione stilistica” dall’altro (non senza, infine, registrare la comparsa ultimissima della secca dialettica del bianco e nero), non fa alcun cenno al segno come elemento fondante di questa pittura.

32. Serpan è tra l’altro firmatario del manifesto Lo spazialismo e la pittura italiana nel secolo XX pubblicato in occasione della mostra al Ridotto della Fenice del settembre ’53, cui partecipa.

33. J. Serpan, Antonio Sanfilippo, cat. della mostra, Roma, galleria delle Carrozze, 1955. M. Tapié, Sanfilippo, cat. della mostra, Roma, galleria Selecta, 1958.

34. G. Marchiori, Antonio…, cit.

35. M. Tapié, Peintures de Accardi. Sculptures de Delahaye, cat. della mostra, Parigi, Galerie Stadler, 1956, citato in F. Gualdoni, Accardi. Il percorso, la critica, in Carla Accardi, cat., Modena, Galleria Civica, Bologna, Edizioni Cooptip, pp. 21 e 32.

36. Appunti di A. S.

37. Senza dubbio fu anche la più stretta frequentazione con Tapié, che fra ’55 e ’60 è il principale critico di riferimento per la Accardi, che spinse Sanfilippo a sondare quelle ipotesi di pittura più agra e contratta, che lo condusse fino alla tentazione del monocromo (“una ricerca che avevo incominciato a fare in un certo tempo tra il ’55 e il ‘56, quando facevo una pittura più aspra e nitida con questi segni” : così Sanfilippo, in un’intervista rilasciata a Nello Ponente, apparsa su “Marcatré” nel settembre 1964, poi nuovamente edita nel catalogo della retrospettiva di Taormina, 1991, p. 57).

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Roma, 1956.